lunedì 27 settembre 2010

Altipiani degli antichi sepolcri


Quando le nubi del tardo meriggio
si squarciano all'azzurro prepotente del cielo che sembra tuonare,
mi sovviene lenta la nostalgia di qualcosa che ancor ho da trovare,
e pensieri e immagini.
Ogni scena s'avanza in un incedere lento
triste come di litania sentita già prima del vero,
innanzi a bianche, candide lapidi
stanche dell'attesa e logore
nell'immobilità che il tempo più non può mutare.
E avverto: l'imponderabile.
Come chiese di campagna all'odor della pioggia d'autunno appena cessata,
or vedo, mi pare; in così grande scena
un intuìto, vissuto di domani;
e ne ho la bramosia, e assaporo quel nulla ora.
Ed è pianto annullato di madre,
rassegnata e avvilita,
e nere donne in cantici incomprensibili stanno;
a riempir la mia nuova scena fantastica.
Cantano inni alla morte onde farsi udir, di rimando, dalla vita,
che regna loro malgrado sulle loro ataviche disperazioni.
Così a ricordar mille sepolcri d'erbacce nascosti,
e passati al passato come ogni cosa
che qui più non si scorga;
non v'è fermata in un'ombra, in una carezza che non avrà fine.
Torna visione campestre, là, nel fondovalle
rintocca l'eco lontano d'una campana
e canti di messa si levano
e liturgie si rinnovano
come ogni giorno, come ogni assoluto sempre.
Lo sguardo al di sopra si porta,
come al solito non afferro del tutto il divino
che sento regnare dietro i raggi di sole
scagliati giù dalle nubi ora più nere;
dentro al contrasto che rabbrividisce
i tranquilli pensieri.
E tutto si ferma all'ieri. Caparbio.
Ma sento, ed è gioia questa che per ora m'appaga.
E so di non sapere,
per l'ennesima volta più nulla;
e non v'è
né prima né dopo, né' sonno né veglia, né suoni né terra;
odore di terra.
E dove non c'è, ci son io;
fermo in un orizzonte sempre troppo lontano,
forse di là da venire;
io che cerco ancora una volta
di penetrare irrisolto la vita.

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