lunedì 27 settembre 2010

Il canto dell'averla


Non so, se in quel frammisto canto d'un'averla,
o forse di corvo, chissà?
Non so se in quello stridio continuo
s'esiliasse quel mattino, ogni contentezza,
per lasciare solo posto al dolore.
E' stato dopo l'alba,
è stato dopo la notte, ch'essa
più forte degli altri – ha cantato:
quasi con un grido, quasi
con indicibile amarezza.
Là s'è conclamata tutta la sofferenza del mondo.
Non so se in quell'istante di smarrito sonno,
di finiti sogni,
in me – una volta in più –
sia morto ancora qualcosa.

Non so! So che era vuoto quel mattino di sole,
- come vuoto di speranza -
era quel canto di creatura.
In esso - lo so - si sintetizzava tutta la disperazione di chi vive.
Per questo, pur così presto, non ho più avuto sonno, né sogni.
Per questo mi sono unito anch'io – col dentro – all'ancestralità dolorosa di quel canto.
Per questo, quando l'avérla ha taciuto – vita che malgrado tutto avanza –
ho pianto.

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